martedì 28 settembre 2010

Oro nero - Floriana Lenti

Ero piccola quando lo vidi per la prima volta. Aveva la pelle scura, non nera, di un colore caffellatte che in certi punti c’aveva più caffè e meno latte e in altri più latte che caffè, ma mai solo latte. Era magro, asciutto, sembrava una corda di violino tesa, nemmeno un filo di grasso e dava l’idea di avere una gran forza. Non era altissimo e non aveva età, l’unico segno del passaggio degli anni era quel nero di capelli e barba che lasciava posto al grigio, diventava sempre più chiaro. Un ghigno soddisfatto sembrava spaccargli orizzontalmente in due il viso. Le sue rughe, senz’altro un’opera olio su tela, sembravano pennellate di un abile artista rinascimentale, innaturali per quanto perfette, e avevano anche la capacità di inglobare tutti gli elementi del viso in modo armonico: gli occhi con effetto bassorilievo ed una infarinata di acrilico più scuro sotto; il naso importante, più lucido del resto del viso; le labbra tirate ai lati verso l’alto, roba da impreziosire le gote, ma se solo provavano a schiudersi sprigionavano pochi denti giallissimi contro i quali la lingua si divertiva a sbattere contro e spesso a passarci in mezzo.
Salutava tutti. Ricordo perfettamente che si aggirava come un attore di teatro per quel piccolo paese del sud Italia, il suo palcoscenico era immenso. Di giorno in via San Francesco, di pomeriggio tra la Chiesa del Sacro Cuore e i campetti di calcetto, di sera in Piazza, nei paraggi del Bar Centrale. Proprio lì lo incontrai una volta all’imbrunire che mangiava i panini vuoti, “gli affettati ci possono servire per i ripieni del giorno dopo” gli dicevano, ma tanto lui ciancicava incurante, gli bastava il sapore della mortadella.
Raccontavano che fosse arrivato dal mare, una mattina d’inverno, quando all’alba i pescatori stavano già allestendo il mercato del pesce. Si dice abbia camminato ore e si sia fermato nel primo paesino che probabilmente non gli piacque, si inoltrò verso Statte. Da allora non si mosse più. Il profumo di terra rossa secca gli dava forza e lo rassicurava il pensiero che i cassonetti della spazzatura erano meno fetenti di resti di cibo e comunque sempre straripanti. Nessuno sapeva quale fosse il suo vero nome, ed in effetti che importanza aveva? Lui era Petrolio! Si sentiva spesso la gente chiamarlo nel dialetto locale: “Ptroghj” (in alcuni posti del meridione urlare è dovere e le vocali sono un optional, in realtà la “o” non è decisa e sincera, e la “j” è solo un modo per finire la parola in modo soft).
I suoi occhi sapevano comunicare i suoi stati d’animo. Quando rideva lo faceva con gusto, con tutto il corpo, piegandosi in avanti nei vari sussulti, tanto che contagiava gli interlocutori.
Sapeva molte cose, innumerevoli storie, e non le aveva lette sui libri, le aveva origliate e alcune anche vissute. E se trovava qualcuno disposto ad ascoltarlo, si dilettava a ripeterle, ma mai uguali, ogni volta ci aggiungeva inediti particolari.
Spesso aiutava la gente in difficoltà, portava buste pesanti alle donne anziane, faceva rialzare bimbi che metodicamente si schiantavano con la bicicletta a causa delle voragini sull’asfalto, teneva d’occhio le macchine parcheggiate in seconda fila davanti alla salumeria e se intravedeva un vigile iniziava a zufolare.
Non si sa se avesse una moglie o dei figli o parenti o veri amici, sembrava non curarsene, stava bene con tutti, forse però non voleva accanto nessuno.
Gli piaceva il vino rosso, i contadini lo sapevano e di tanto in tanto gli regalavano boccioni che travasava di volta in volta in una borraccia che portava sempre con sé. Probabilmente era uno dei pochissimi oggetti che si portava dietro dalla sua terra.
Conosceva a memoria le costellazioni, ogni sera prima di addormentarsi le osservava e sembrava contarle, monitorarle. Sapeva perfettamente che tempo ci sarebbe stato il giorno dopo, e se avvertiva un soffio di vento si leccava il dito e sollevandolo al cielo si esprimeva: “arriv la tramntna, doman il mar è nà sfurtuna”; oppure “è punent e il vent sona fischia e cant”. Petrolio era meglio del meteo, per quel che io sappia, non ha mai sbagliato i pronostici.
Siccome il suo cartone e le sue coperte furono considerate “antiestetiche” da perbenisti del luogo, alcuni uomini compassionevoli decisero di regalargli una macchina, una specie di panda nera senza il sedile di destra, così poteva mettere lì i sui arnesi e poteva anche dormirci dentro. Inizialmente non voleva accettarla, poi, pian piano si abituò all’idea e negli ultimi tempi si affezionò anche a quell’abitacolo tanto da chiamarlo “cas mj”.
La sua passione più grande era rovistare nella spazzatura “c stann assai cos bone qua dentr” si ostinava a ripetere “l cristian gettan tutt e invec bast sol ca s aggiustan” e ridava vita a oggetti di ogni genere. Riesumò ferri da stiro, sedie, tavoli, armadietti, frigoriferi, televisioni, radio e chi più ne ha più ne metta. Qualche volta riusciva a venderli, altre volte barattava questi oggetti con torte di mele e crostate, piatti di pasta e parmigiane. Si dice che abbia anche trovato un bambino, un batuffolino scuro a cui salvò la vita dandogli del latte con un contagocce e coprendolo con i panni più puliti che aveva, poi lo portò in Chiesa e fu lui a scegliere il nome: era indeciso tra Libero e Felice, alla fine si decise a chiamarlo Gioia, era una femminuccia.
C’erano giorni in cui Petrolio non si faceva vedere, non voleva che gli altri sospettassero che stesse male e si nascondeva tra alcuni alberi, vicino ad una costruzione diroccata che si affacciava sulla ferrovia. Amava i treni, gli facevano compagnia e lo aiutavano a sognare posti lontani e valigie colme di vestiti profumati di lavanda; immaginava di essere un manager e di viaggiare vestito di tutto punto, sì, se proprio doveva essere elegante avrebbe voluto anche la giacca con i gemelli.
Un giorno tornai a casa tardi da scuola e decisi di scendere qualche fermata prima rispetto a quella dove l’autobus mi scarrozzava quotidianamente e mi misi a camminare a testa bassa. Avevo perso uno stupido braccialetto e mi sentivo triste. Da lontano lo vidi che sventolava le ossute dita per salutarmi e allora mi avvicinai. “Ciao Petrolio!” sussurrai triste. “Che tieni signorì? Sì cussì bell che è brutt se piang, t’hann nfastidit? T poss rincuorà?” mi disse seguendomi per un pezzo di strada. Gli spiegai che avevo smarrito il bracciale e mi garantì che se ne avesse trovato uno, me lo avrebbe regalato. Poi ci sedemmo su una panchina fredda sul viale principale del paese e iniziammo a chiacchierare. Mi raccontò del suo naufragio e della meraviglia che provò quando si accorse che era ancora vivo, mi disse anche che nel suo paese era un ingegnere stimato e che però non sarebbe più tornato indietro. Ad un tratto gli chiesi: “Petrò, ma mi dici una cosa? Come ti chiami veramente?”, “Ah, ah, ah…” sorrise a labbra aperte “Signorì, sì assai curiòs, m chiam Ptroghj, sì, Pe-tro-lio, e vù sapè pcchè?”, sorpresa dalla sua risposta annuì, “Eh, pcchè tu dev sapè che sono l’uomo chiu ricc du mond, io tengo tutt quell ch voglio”. Non riuscivo a crederci: i miei occhi osservavano un uomo vestito malamente, per me non aveva nulla, incalzai “Pensavo ti chiamassero Petrolio perché hai la pelle più scura della nostra”. Mettendosi la mano sul torace mi disse “Sai dov sta’ quell che teng? Signorì, io l’oro ce l’ho qua dentr, poi il rest delle ccose le ho nella munnezz, lì ho trovat u pe-tro-lio”. A quel punto lui davvero mi parve un re. Sorridemmo ancora e ci stringemmo la mano, dovevo correre a casa per raggiungere i miei: del braccialetto non mi importava più niente, volevo solo riabbracciare mia madre e mio padre, loro erano il mio tesoro. Fu l’ultima volta che lo vidi.
Dopo un po’ di tempo venni a sapere che avevano ritrovato Petrolio nella panda nera con il sedile sdraiato, sulle ginocchia la borraccia e con il suo solito sorriso dipinto in faccia: tra le mani stringeva un piccolo braccialetto.

Sulla sua tomba c’è scritto: “I cittadini di Statte hanno perso il loro Petrolio”.

13 commenti:

  1. Bellissimo, mi sono commosso. Ale

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  2. Travolgente, snello, fluido, ti tiene incollato per poi liberati e riprenderti poco dopo. Bel racconto !

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  3. Veramente molto bello, un racconto che esprime solidarietà per i più deboli ed emarginati, inseriti in una vita quotidiana che spesso non gli appartiene, ma anche amore per la propria terra d'origine.
    Complimenti.

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  4. ma come t'è venuto di parlare d Ptroghj, lo hai reso importante. questo racconto lo deve leggere tutta Statte
    lulù

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  5. Una storia di vita più che un racconto. si fondono insieme dei temi non facili da trattare: lo straniero, l'accettazione, la dignità delle proprie scelte. l'idea che qualcuno scelga un cammino di emarginazione per molti è incomprensibile, per altri è una ragione di vita. il tutto descritto in modo da far scuscitare emozioni forti. Molto bello!
    F.

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  6. Floriana, riesci a toccare le corde più profonde dell'animo umano!
    Barbara Mangiapane

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  7. SONIA AMICA CHIPS :P


    davvero commovente flo'...
    il cupo colore dell'emarginazione che si dissolve e cede ad un caldo e sereno ritratto della Ricchezza pura.
    :)

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  8. Marco

    Flò!!!! mi hai fatto commuovere!!! Petrolio!!! sono tornato indietro di vent'anni!!! brava tesò!!!

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  9. Un bellissimo scorcio di vita, delicato e pieno di cuore. Come te.
    Baci
    Zietta

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  10. Mi ha commosso e tutto ciò che mi commuove è bello! brava Flò
    TVB, Manuela

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