martedì 28 settembre 2010

Ghiaccio e sabbia - Leo Todaro

Guarda che qua non si può stare! – gridò il ragazzo nel silenzio del fastfood.
Chicco ebbe paura. Si voltò lentamente, lo guardò di sottecchi. Doveva essere nuovo. La sua voce tradiva incertezza. Chicco pensò che avrà avuto vent'anni, grosso modo l'età di suo figlio Franz. Franz.Chissà quant'era cresciuto, se era ancora biondo e magrolino.
Un paio di volte alla settimana Chicco faceva un'incursione notturna al fastfood in Piazza Repubblica. A quell'ora infatti gli impiegati più esperti erano a casa a guardare la tele e chi li sostituiva era spesso incline a chiudere un occhio.
– Hai fame? Prendi questo, basta che te ne vai – aggiunse il ragazzo. Gli porse una scatola con dentro un hamburger appena smozzicato.
Chicco prese la scatola e la posò sul tavolo più vicino. Come se niente fosse riprese ad armeggiare coi vassoi lasciati sui tavoli, li svuotava per poi impilarli sul carrello. Se gli avessero dato l'uniforme, si sarebbe quasi detto lavorasse lì.
– Lo capisci l'italiano? Te ne devi andare – incalzò il ragazzo.
– Prima fammi finire di lavorare.
– Lavorare? – trasecolò il ragazzo.
– Vi do una mano, ne avete bisogno mi sembra. – A Chicco infatti non piaceva mendicare, la pagnotta gli piaceva guadagnarsela dando una mano, un po' qua e un po' là.
– No bello, tu te ne vai subito, sennò chiamo la Polizia.
Chicco scosse la testa, come chi non capisce, poi si voltò lentamente e fece per andarsene.
Il ragazzo prese la scatola con l'hamburger smozzicato.
– Aspetta, tieni.
Chicco lo guardò perplesso, poi prese la scatola. Spingendo il passeggino sbilenco e carico di sacchetti si incamminò verso l'uscita.
Si fermò a due metri dalla soglia, si guardò intorno come se non avesse mai messo piede là dentro. Individuato un cestino, un enorme ranocchio panciuto, vi gettò la scatola con l'hamburger.

*
Colin l'irlandese era la cosa più somigliante a un'amico che avesse. Il suo italiano lasciava a desiderare e parlava poco, ma all’occorrenza si faceva capire. Lo aveva incontrato una notte di aprile, sotto un ponte del Lungotevere. Lungo e arancione come una carota, gli aveva fatto cenno di avvicinarsi, di sedersi. Gli aveva offerto da fumare. Era un tipo generoso. Gli aveva raccontato di un deposito sulla Casilina, dove la sera tardi pulivano i treni. L'addetto alle pulizie di solito saliva a un'estremità e scendeva un'oretta dopo da quella opposta. Si trattava di acquattarsi nel mezzo e attendere il momento propizio per saltare dentro. Chicco ci era andato con Colin un paio di volte, ci era tornato da solo e ci aveva dormito nei mesi più freddi, poi per fortuna era tornata la primavera e aveva ripreso possesso della sua panchina preferita in Piazza Trilussa. Ma stasera non era cosa. Da un paio di giorni la temperatura era scesa bruscamente e Chicco aveva deciso di farsi quegli otto o nove chilometri a piedi, piano piano, nella speranza di potersi fare qualche ora di sonno cristiano. Si ricordò che doveva passare dal Sor Guerino, il ciabattino della via Portuense che gli aveva promesso un cappotto. Camminava a fatica, aveva voglia di togliersi le scarpe per dare sollievo ai suoi poveri piedi, gonfi come scamorze. Avanzava lentamente tra due fila di cipressi, fiancheggiando l'alto muro di cinta del cimitero di guerra. Sorrise al pensiero che quelle mura imponenti servissero più a proteggere i morti dai vivi che viceversa. Vide una panchina vuota, incorniciata tra due alberi, un prato all'inglese a fare da tappeto. Decise di fare una sosta. Si lasciò cadere sul ferro battuto della panchina. Si sfilò una scarpa, poi l'altra, le depose sotto di sé in modo da poterle serrare coi talloni. Erano belle, da ginnastica, infinitamente più comode di quelle che aveva prima, di pelle, troppo strette nonostante gli avesse tolto i lacci.
A un tratto gli venne incontro trottando una macchia screziata con quattro zampe, una femmina di fox terrier.
Uggiolava scodinzolando e annusandolo per bene.
La sua padrona, una giovane donna, gli veniva dietro a 7–8 metri di distanza.
– Lady! – vieni qua, disse la donna affrettando il passo.
Chicco si rallegrò a quella visita inattesa, allungò la mano senza paura, accarezzò la bestiola.
– Caruccia lei – disse alzandosi – aspetta che ho una cosa per te.
– Lady, lascia stare il signore! – urlò quasi la donna. Prese l'animale per il collare e lo trascinò via spaventata, così in fretta che Chicco
non fece a tempo a protestare. Rinunciò a trovare il sonaglino che sapeva di avere da qualche parte, si sedette di nuovo, sospirò. Affondò la mano destra nella tasca dell'impermeabile, le dita strinsero il collo di una bottiglia, la agitarono soppesando l'entità del contenuto. Si guardò intorno, estrasse la bottiglia dalla tasca, la portò alla bocca e trangugió tre sorsate buone del prezioso liquido. Sollievo. Fece un respiro profondo. Lo stomaco gli bruciava, ma la sensazione ricorrente di trovarsi su di un iceberg alla deriva evaporò. Adesso c’era sabbia sotto i suoi piedi, la sabbia di un isolotto sperduto, sul quale aveva fatto naufragio. Seguendo a ritroso il corso dei pensieri pensò prima alla donna col cane, poi al bastardino che aveva chiamato Camillo e che per un periodo era venuto a svegliarlo le mattine d'estate, quando dormiva all'aperto su una panchina in Piazza Trilussa, poi ancora a Whisky, il meticcio che aveva adottato in quell'altra vita, quando ancora aveva un nome, un tetto, una donna e un sacco di altre cose da perdere.

**
L'addetto alle pulizie quella sera era di pessimo umore, aveva cominciato con mezz'ora di ritardo, colpa del figlio, ventenne, nullafacente, che non era tornato in orario con la macchina. Si era preso una lavata di capo dal superiore, che gli avrebbe defalcato un'ora dalla paga e azzerato la già scarsa considerazione che ne aveva. Aveva liquidato con un grugnito le osservazioni di un collega sulla campagna acquisti autunnale della Lazio e si era messo al lavoro, agitando a scatti il bastone metallico con i pugni serrati. Quando ebbe finito, invece di scendere si sedette per accendersi un'altra sigaretta. Fu allora che vide una sagoma muoversi nella penombra, cinque o sei vagoni più in là. Gettò la sigaretta, si alzò di scatto. Impugnata la scopa di metallo, andò minaccioso incontro all'intruso.
Avete rotto er cazzo! – gli gridò ormai dappresso.
Chicco sobbalzò, si voltò verso la porta ancora aperta, cercò di scappare.
L'altro azionò un congegno alla parete. Come per un sortilegio la porta si richiuse. Era in trappola.
Barboni… – qualcosa di duro sferzò la testa di Chicco – drogati… – un secondo colpo, di punta, allo stomaco – gente che non fa un cazzo… – un terzo, terribile tra capo e collo lo fece cadere ginocchioni – dalla mattina alla sera!
Un rivolo di sangue, colato dalla tempia sinistra, gli solcò la guancia poi il petto, insinuandosi tra impermeabile e maglietta.
Basta – avrebbe voluto gemere. Un calcio in pieno petto, duro come un macigno, gli tolse il respiro, lo fece stramazzare su un fianco.
Alzò la testa, sperò che la furia dell’altro si fosse placata. Macchè. Gli occhi spiritati, si dimenava come trattenuto da una forza invisibile.
Il sangue dalla tempia di Chicco gocciolava adesso sul pavimento, formando una piccola pozza.
Animale, hai visto cosa hai fatto? Ho finito mo’ di pulire! – gridò il carnefice. Incapace di proferire parola, di implorare pietà, Chicco alzò una mano davanti al viso. Un primo calcio lo centrò al tronco. Con gli occhi chiusi attese il successivo. Che non arrivò. Una sagoma alta e massiccia si materializzò dietro l'uomo, ne toccò la spalla, lo colpì due volte in testa con una bottiglia. Il primo colpo produsse un rumore sordo, cupo. L'uomo vacillò indietreggiando. Il secondo colpo vide la bottiglia esplodere in una miriade di schegge. Chicco era salvo. Colin ansimava, l'arma ancora in mano. Guardava l'avversario crollato al tappeto. Aveva un espressione truce che Chicco non gli aveva mai visto.
– I'll kill this piece of shit! – urlò.
No! Bisogna che ce ne andiamo – disse Chicco mettendosi in mezzo. Facendo leva con le unghie cercò di fargli aprire la mano, serrata sul collo della bottiglia. Colin la lasciò cadere. Mise una mano sotto l'ascella di Chicco, lo aiutò a scendere, lo mise a sedere, poi risalì per prendere le cose di entrambi. L'addetto giaceva a faccia in giù nel sangue che adesso era anche il suo. Colin riprese il pezzo di bottiglia, ne pulì il sangue sulla tuta dell'uomo, poi lo infilò in un sacchetto. Da un altro sacchetto prese un pezzo di stoffa col quale tamponò la ferita alla testa di Chicco.
Barcollanti, insanguinati come improbabili gladiatori, si allontanarono nella notte. Chicco si sentiva infinitamente stanco. Guardò Colin e pensò che, se non fosse stato per lui, forse avrebbe trovato la morte per mano di quell'energumeno. Non provò alcuna gratitudine. Si sentì anzi defraudato. Avrebbe voluto spiegare questo concetto all’amico. Vi rinunciò.
– Grazie! – disse invece.
Colin sorrise, con le dita forti gli strinse la spalla.

5 commenti:

  1. Sempre grandioso!!!
    Bravo!!!
    Grazia (Scheggia)

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  2. molto profondo e commovente,verità nascoste che molto spesso vengono ignorate...complimenti

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  3. FANTASTICO, COMPLIMENTI A LEO TODARO

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