martedì 28 settembre 2010

Costi quel che costi - Annalisa Maitilasso

A Julio

I giorni sembrano uguali e non lo sono: sono tutti diversi ma io preferisco ricordarli come se fossero un giorno solo. Così mi dimentico che oggi è il 17 gennaio, che siamo nel cuore dell’inverno e manca ancora tanto alla primavera, figuriamoci all’estate.
C’è chi odia la routine, io la adoro. La routine è un angolo di asfalto più morbido, un giornale più comodo, uno spicchio di sole garantito dalle 9:00 alle 14:00, il panettiere che apre alle 6:50, un’anziana che esce di casa con il cane alle 8:15 e alle 8:16 già impreca perché il cane ha pisciato contro il cassonetto (che donna! Con un piede nella fossa e ancora fuma e bestemmia senza paura); alle 8:45 passa un ragazzo coi brufoli, ne ha sempre uno nuovo di zecca sulla faccia: mi sorride per finta e mi sgancia cinquanta centesimi a giorni alterni. Sicuramente si sente molto bravo. Sicuramente gli faccio pena, qui seduto per terra a chiedere l’elemosina. Io ringrazio per finta e sputo per terra. Tra le 10:00 e le 11:00 scende una signora sempre in gonna e dopo di lei scende una scia di profumo che sa di femmina smaltata e messa in piega. Abita nel palazzo qui a fianco, entra ed esce, piena di sacchetti da boutique (forse li colleziona). Sempre agitata e palpitante. Non mi lascia mai un centesimo che sia uno, ma a me che mi frega se dalla mia postazione posso sbirciarle le gambe e a volte anche le cosce e infilarmi la mano sotto la coperta, che sta lì apposta.

Io adoro la routine. La routine è casa, casa mia è Madrid, Calle Atocha nº43, marciapiede destro, secondo portone commerciale accanto a un bar che è anche una panetteria: pane ne ricevo in quantità e se non sono baguette lo do ai cani di Tirso de Molina, a me piacciono solo le baguette. Tutte le mattine le passo così, raramente mi alzo in piedi prima di mezzogiorno. Se piove e l’asfalto è bagnato, preferisco lasciare il didietro a mollo che tirarmi sù. E se fa proprio un freddo bastardo come oggi, lo dichiaro giorno di ferie e me ne vado a cercare un angolino caldo: ce ne sono decine di posti segreti, di androni bui e di magazzini semiabbandonati dove nessuno viene a darti fastidio.

Quand’è l’una mi isso sulle mie zampe glabre da boy-scout, sgambetto un po’ fino a che il sangue non torna a circolare nelle articolazioni addormentate e comincio a occuparmi del mio tempo libero. Sono fortunato, lavoro solo part-time. Il pomeriggio lo passo in giro. Eccomi che scendo la Calle del Olivar, moderatamente soddisfatto e mediamente incazzato come ogni buon cittadino di questa città dove la gente grida quando parla e sbatte i piedi quando cammina. Parallela alla Calle del Olivar c’è una stradina in discesa che striscia fino a una piazzetta colorata, fatta a gradoni: la piazza di Ministriles, un buco tra due file di palazzi che sembra lo spazio tra i denti di un vecchio sdentato. A volte mi siedo a riposare e mi metto a guardare i piccioni che cagano sulle panchine, mentre gruppi di neri tristi si mischiano a bianchi felici con gli occhi dilatati che fumano e si ingannano a vicenda.

Poi scendo verso la Plaza de Lavapies rigata dai passi della gente. Giovani e anziani si trascinano avanti e indietro, ognuno spinto da una febbre diversa: coppie in cerca di amici, amici in cerca di una birra, birre in cerca delle bocche degli habituè dei bar che già biascicano alle cinque di pomeriggio, pomeriggi in cerca di un senso, dove il sole e l’azzurro del cielo spesso non sono, per tutti, un senso sufficiente, come lo sono per me. Rallento il passo circondato da bambini aggrappati alle gonne delle badanti, incrocio ragazzoni di colore inquieti che sfilano via sotto gli sguardi annoiati di poliziotti in fase depressiva.
Si sente ridere per la Calle Argumosa; la gente se ne sta là seduta ai tavolini che, anche in pieno inverno, punteggiano l’orlo del marciapiede. Le bocche si schiudono e si chiudono, fumando nell’aria della sera. Mentre cammino, salto da una conversazione all’altra, attraverso barriere del suono, faccio incetta di frasi a brandelli: “...non ne posso più, non so perchè continuo ad andare in ufficio tutte le mattine...forse perchè mi pagano...”, “...quando parti? Sono proprio contenta, così ti togli un po’ dalle...”,“...E va bene, hai ragione tu...ma di sicuro io non ho torto!”.
Scivolo via tra banchi di nebulose parlanti, sfioro ragazzi abbracciati, faccio l’occhiolino alle gambe viola di una spilungona in minigonna che fa finta di non vedermi scampanellando la coda di cavallo.

Arrivo finalmente alla Ronda de Atocha e mi ritrovo sotto l’alettone rosso del Reina Sofia pronto ad affrontare l’attraversamento pedonale della stazione di Atocha. Eccomi là, in mezzo ai pendolari delle sera, col passo deciso dell’uomo metropolitano, giunto al suo stadio evolutivo terminale, pronto a giurare che non c’è desiderio di orticello o odor di campo che possa strapparlo alla città e al suo infernale andirivieni. Cammino come gli altri, tra decine di altri, attraverso il Paseo del Prado con lo sguardo ritto sul filo immaginario dei miei passi. Nessuno troverebbe la differenza tra me e loro, sono perso nel flusso degli attraversatori professionisti che avanzano come soldati in marcia. Forse non sono vestito bene e non odoro di candeggina, ma nemmeno loro. I madrileni hanno cattivo gusto da vendere, puzzano d’aglio e, di solito, ne vanno fieri. Li vedi che riflettono su che programma guaderanno in tv, su come inventarsi una scusa per cenare fuori, su quale argomento usare per urlare in testa ai loro figli. Hanno già i pensieri a casa, a 20 minuti di metro da Atocha. Anche io ho già i pensieri a casa e casa mia sta in un bagno della stazione o da qualche parte lungo Menendez Alvaro, o su una panchina di Paseo del Prado o ovunque ne abbia voglia, anche se raramente cambio posto quando ne trovo uno buono. Sono un vecchio di 40 anni, abitudinario come tutti i vecchi e ipocrita come tutti i quarantenni che si convincono di adorare la loro vita e che hanno deciso di amare Madrid, la loro città, costi quel che costi.

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