martedì 28 settembre 2010

Negli sporchi panni di Maria - Flavia Montanaro

Credo che una casa non sia solo un riparo sicuro dal freddo e dalla pioggia. Una casa è una porta chiusa a chiave e un citofono.
Ho 15 anni, mi chiamo Maria. Sono in Italia da quando ne avevo 7. Dopo la morte di mia madre mio padre decise di venire in Italia. L’ho sempre odiato per questa sua decisione. Lui era un musicista, suonava il sassofono. Sognava per me la sua stessa carriera. Suo fratello gli disse che sarebbe andato a Brindisi a lavorare come muratore. Si guadagnava bene e avrebbe permesso una vita dignitosa ai propri figli. Mio padre decise di prendere le nostre cose, di prendere me e di partire con lui.
Dell’arrivo in Italia ricordo solo la leggera luce del mattino che lasciava intravedere in lontananza la terra ferma. E’ stato uno dei viaggi più lunghi della mia vita. L’unico.
Arrivati in Italia, a Brindisi, non sapevamo nemmeno dove andare. Un paese nuovo, una lingua nuova.
“Quando andiamo nella nuova casa, papà?” chiesi. “Presto piccola mia”, rispose lui con un’aria desolata.
Iniziai a piangere perché dovevo fare la pipì e non c’era un bagno. Mio padre mi tirò uno schiaffo così forte che per la vergogna smisi di piangere. Non ero l’unica bambina che piangeva. Ma forse ero l’unica che aveva capito che non ci sarebbe stata una casa, tantomeno un bagno.
Ero così arrabbiata. Camminavo silenziosa seguendo mio padre e mio zio. In Albania almeno una casa ce l’avevamo. Ricordo le mattonelle marroni del bagno che mia madre si ostinava a lucidare ogni giorno. Una malattia se l’è portata via in poco tempo. Di lei oltre al ricordo delle mattonelle, porto con me uno scialle di lana infeltrito lavorato ad uncinetto. L’unica cosa davvero mia che sono riuscita a portare.
Avrei voluto portare con me anche la sedia di legno che mi aveva costruito il nonno. E volevo portare anche Pesca, la mia bambola. Ma i proprietari della barca ci dissero che potevamo portare solo una valigia con noi. Portammo il sassofono. E ci vestimmo a strati. Uno strato leggero, uno pesante.
Brindisi non mi piaceva proprio come città.
Mio padre e mio zio andarono a parlare per quel lavoro da muratore. Io li aspettai in una piazza grandissima. Sentivo il fischio dei treni. Mi avvicinai e capì che quella era una stazione. Sarebbe stata la mia casa per qualche tempo. Mio padre torno dopo un po’ sorridendo, senza lo zio. Ma quel sorriso lo conoscevo benissimo. Era lo stesso di quando tornava a casa dopo i colloqui di lavoro non andati bene.
Avevamo pochi soldi con noi. Lui decise che li avremmo usati per comprare da mangiare. Io volevo solo un letto per dormire.
La stazione non aveva tutti i comfort di una casa. Per esempio al bagno ci andavo solo la mattina per lavarmi, quando passavano le donne delle pulizie a disinfettare tutto. Di giorno mio padre tirava fuori il sassofono. Le sue dita e il suo fiato erano il nostro pane quotidiano.
La sera dormivamo nella sala d’attesa della stazione. Era settembre. Ma faceva già così freddo. Mi stringevo nello scialle di mia madre. Chiudevo gli occhi e volevo risvegliarmi sulla mia sedia di legno.
Dopo una settimana mio zio decise di tornare in Albania. Mio padre diceva sempre che lui era “allergico al lavoro”. Ed era vero. Noi decidemmo di rimanere in Italia. Ma di andare via da Brindisi. Quella città non mi piaceva. La gente mi guardava male quando mi toglievo il cappello di paglia viola con i fiori per recuperare qualche centesimo.
Ci recammo ad un banco di pegni e mio padre vendette l’orologio per prendere due biglietti per Roma. Quell’orologio valeva il ricordo di suo nonno. Molto più del prezzo di due biglietti.
Quel viaggio verso Roma non lo ricordo. I sedili del treno erano molto più comodi di quelli della sala d’attesa. Mi svegliai all’arrivo.
Roma l’ho amata dal primo momento che l’ho vista. La stazione era anche più grande di quella di Brindisi. Così grande che poteva contenere tutti quelli come noi. A Brindisi non era così. Infatti una sera la polizia mandò via alcuni uomini di colore. Dicevano che eravamo in troppi.
Odori, rumori, tanti volti, le scale mobili. Ero piccola. Troppo. Amavo ogni cosa che vedevo. A volte nemmeno mi pesava non avere una casa. E poi a Roma non ci guardavano male quando mio padre suonava ed io toglievo il cappello di paglia. La stazione Termini di Roma sarebbe stata la mia casa per circa 3 anni. Conoscemmo una suora. Suor Claudia.
Mi portava sempre dei vestiti. Alcuni erano bucati, troppo grandi. Ma almeno erano puliti. Una volta ci invitò al pranzo di Natale. Io e mio padre portammo via tutti gli avanzi. Ma una notte Bruna rubò la nostra sacca e si portò via tutto. Bruna era una donna sulla cinquantina, mi raccontava sempre di quando era sposata con un uomo più grande di lei. Andavano a ballare. Facevano le gite al lago la domenica. Solo che è morto d’infarto e i figli sono riusciti a mandarla via da casa e a mettere le mani sul libretto di risparmio con i suoi soldi. Mi raccontava di tutti i posti in cui aveva vissuto. Della campagna. Dei ponti. Dei casolari abbandonati.
Il giorno del mio compleanno mi regalò una chiave. La chiave della mia casa. Un po’ buffo come regalo. La mia casa era la sua. La panchina in cemento davanti alle scale mobili.
Una calda mattina d’estate mio padre non si svegliò più. Anche lui mi aveva lasciata. Avevo 10 anni. Imparai a cavarmela da sola in pochissimo tempo. Qualche volta Suor Claudia mi invitava nella sua parrocchia. Ma io tutti gli sguardi penosi e disgustati delle bambine nel loro cappottino di velluto non li sopportavo. E scappavo via. Poi mi stringevo in quello scialle. E piangevo.
Mio padre un giorno mi insegnò a suonare il sassofono. Il segreto era il cuore. Un giorno riuscì a guadagnare più di lui. Era così soddisfatto. Festeggiammo con una pizza quella sera. Gli avanzi del fast food li lasciammo a Pigi e Bigi.
Pigi e Bigi forse erano fratelli. Uno era sordo, uno era muto. Una strana coppia quei due. Vivevano solo di avanzi trovati tra i rifiuti. Aspettavano l’ora di chiusura del fast food e iniziavano la caccia al tesoro. Il loro lavoro.
Per noi invece suonare il sassofono era un vero e proprio lavoro.
Pensavo spesso ai casolari e alle campagne dove aveva vissuto Bruna. Roma città eterna. Roma città che ti abbraccia. Ma a una bambina di 11 anni già donna, non basta più l’abbraccio materno fatto di cemento e mattoni.
Presi un treno regionale con la speranza che non passasse nessun controllore, scelsi un posto vicino al finestrino. Era Aprile. Non ricordo dove scesi. Non sapevo leggere in lingua italiana. Solo parlare. Veramente anche adesso faccio fatica a leggere.
Iniziai a correre. Non lo so perché. Ma iniziai a correre in direzione di alcuni alberi di pino. Rimasi un po’ stesa sulla nuda terra. Iniziò a piovere. E tornai in stazione. La sala d’attesa era minuscola e accogliente. Iniziai a pensare alla sedia. A Pesca. Alle mattonelle marroni lucide. Presi la foto di mia madre tra le mani e mi addormentai.
Oggi ho 15 anni. Mia madre si chiama Roma. La mia casa è il piazzale della Stazione Tiburtina. Arrivano tanti e troppi pullman qui. Vedo tantissime persone. Immagino le loro vite, le loro case. Il custode del bagno è mio amico. Ogni mattina mi offre la colazione. Spesso è l’unico pasto della giornata. Passo ore intere a suonare il sassofono. Ad aspettare qualche centesimo per far materializzare un pezzo di pizza calda. Ogni tanto vado a trovare Suor Claudia. L’ultima volta che sono andata ha preso il mio scialle di lana. E l’ha lavato. Odora di lavanda.
Ho lo scialle. Ho il sassofono. Ho ancora la chiave che mi regalò Bruna. Ma non ho una casa.
Tutto sommato sono fortunata. Lotto per vivere. Ma sono viva. E sono libera. Non come Miranda. Lei deve consegnare ogni centesimo che guadagna a Kasimiro. Il suo protettore. Mi ha raccontato che le fa fare cose orribili. Ma lei è contenta perché ha un letto e un pasto caldo assicurati. Io non svenderei così la mia vita. Mai!
Ho deciso che imparerò a leggere.
Adesso però prendo il mio scialle. Sistemo quel vecchio materasso in lattice che ho trovato vicino al cassonetto e quella visiera di un vecchio motorino. Ci sono delle nuvole e si sente l’odore della pioggia.
Prima di chiudere gli occhi sorrido sempre. Dovrei piangere. Eppure sorrido. Sorrido a mia madre e a mio padre. Un giorno avrò una casa con il portone e il citofono.

19 commenti:

  1. Bello!!!! Ho la pelle d'oca...hai centrato perfettamente dettagli e contorni...brava davvero.....mi hai emozionato

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  2. Realistico ed emozionante! Complimentoni.
    A. Carriero

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  3. Complimenti Flavietta, te l'avevo detto che hai talento, continua cosi. Comunque ti preferisco in chiave umoristica......

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  4. carinissimo...mi piace!!!!!!!!!

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  5. Bellissimo !!! Brava Brava Brava Brava Brava

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  6. Emozionante! Complimenti.

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  7. toccante e...maledettamente corto.
    bravo!

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  8. bello davveroooooooooo....

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  9. Brava Flavietta realistico ed emozionante, purtroppo corto!

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  10. Letto tutto d' un fiato...! Tocca il cuore. Brava Flavia!
    -la frà-

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  11. Complimenti, toccante racconto che arriva al cuore !!

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  12. Complimenti, toccante racconto che arriva al cuore !!

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