martedì 28 settembre 2010

Light my fire - Michele Lancione

Intro
Nella fabbrica.
Buio e controluce. Fasci qua e là, polvere. E ancora buio.
Le ombre passano e te ne accorgi quando ormai sono fuori dal tuo campo visivo.
Un paio di grandi stanzoni. Altra polvere, ancora. E poi le stanze dei vecchi uffici, dove inizi a vedere materassi. Quelli vecchi, che non usa più nessuno, buttati per terra, storti, senza ragione. Vai avanti, e ti si aprono d’improvviso altri piccoli mondi. Camerette con la finestra aperta sul cielo, il cemento armato scrostato, e materassi due qui, uno più in là, con delle coperte su. A quadrettoni.
Una piastra collegata non si sa dove. Degli scacchi, una radio a pile. Non ci sono scarpe, non ci sono vestiti. Assi di legno per terra. Tubi di plastica nera e misture. Qualche sacco, borse e zaini da spalla, e nella stanza dopo ancora materassi, e coperte, e polvere ancora, intorno e dentro alle cose.
Le mura alte della fabbrica che fu, i giacigli scassati del mondo in cui siamo. E tutto inizia a girare.
Ed è quello, solo quello, quando le ombre sembrano aumentare, il momento in cui sai di dover uscire. A farti prendere a schiaffi dal sole che sta lì, pronto a farti rendere conto di dove sei finito. Sulla soglia. La casa di molti.
La città, casa di tanti.

Light my fire
Il problema qui non è dormire. La questione è un’altra: addormentarsi è il problema. Ma è la stessa
cosa, direte voi, voi che ascoltate, voi che vi fate passare le parole tra le orecchie come bracialetti, colorati pallini, tra le dita. Ma addormentarsi e dormire sono due cose sostanzialmente diverse. La prima fa parte delle azioni compiute: compi l’azione, hai dato il meglio di te, e niente può cambiare il risultato. Dormi, e hai dato. Addormentarsi è invece una sfida continua, è il divenire, è schiena che reclama solitudine dall’umidità. È spalla con la pelle che viene via a sfregare contro la giacca di cotone, spesso, duro. Sono le cuciture tra un nervo e l’altro: addormentarsi è l’azione che si ripete, continua, senza raggiungere un suo fine, un suo rilascio morfinico. Addormentarsi, non dormire, è il problema. In particolare, quaggiù. Quaggiù dove l’umido degli angoli bui è lo stesso incatramato negli angoli piegati, come un foglio bisunto e scucito, del tuo materasso buttato per terra. Dove la coperta e il lenzuolo sono il vestito che ti porti appresso tutto il giorno. Dove c’è Hassam, che russa come un cammello a due passi da te e dove Maurizio sta dirigendo, a scoregge, sinfonie etiliche degne di Goldberg – un tanfo di viscero pizza e bruciato, stomaco gatto e benzene, piscio di vinello e ascella di cane. Che punge nelle narici. Da cui non ti puoi separare. Le mura sono alte, le finestre aperte, perché rotte, divaricate scostate, e tu puoi girarti e girarti ancora; lamentarti, sbuffare; chiudere gli occhi o aprirli a ripetizione – ma niente: addormentarti è il codino del calcio inculo della giostra dei zigani, quella dello zucchero filato e dei popcorn, che tendi la mano, la tendi ti stiri, ma non sei mai riuscito ad afferrarlo, da bambino. È un provare continuo. Con i piedi tagliati, bagnati e dolenti – che le scarpe non si tolgono, mai. Le mutande che prudono. E il corpo, quello vero, quello che senti solo quando sei solo, che è freddo: nel midollo, tra i suoi nervi, i fasci, le vene… che quando arriva alla pelle ha già fatto tutti i chilometri che deve fare, il freddo. E ti ha svuotato, spolpato. Lasciato lì, a mollo, ammasso di latte di carne e di fame, in una fabbrica abbandonata come un macigno nella città post-industriale.
Ma addormentarsi, certo, non è la questione principale. Fa male, su per la schiena, ma non è tutto.
C’è un’altra, un’altra questione che arriva nel momento in cui il codino non l’hai preso, quando lo zigano ti fa il dito, quando non ti sei addormentato. La questione è semplice, limpida e pure scintillante. Che fare? Scanditelo bene. Passatevelo tra il labbro inferiore, gli incisivi centrali superiori, e con la lingua carezzatelo un poco: Che – fare? Addormentarsi non ci si addormenta. Bere, non si beve (non per altro: non ce n’è). Fa freddo e allo stesso tempo c’è il caldo vapore del puzzo di piscio di fabbrica che ti culla, piano, vomitino. Che – fare? Scostare la coperta. È un’ottima prima azione. Muovere leggermente le gambe, immobili, paralizzate. Dirgli che si devono alzare, dirglielo ora, così tra un paio di minuti avranno recepito e si saranno messe in moto. E nel frattempo, pensare. Passarsi una mano sul viso. Constatare che è una mappa altrui, ma senza alcuna sorpresa. Mettersi una mano in tasca, un autoriflesso, come un illuso. E rimanere – a volte capita, è raro ma accade – sorpresi. La mano, incredibile ma vero, ha trovato qualcosa. Il primo dito l’ha sfiorata, non ci ha creduto per un cazzo, c’è stato un attimo di vuoto-tensione ma poi le altre dita, come rete sui pesci, abbraccio improvviso, esultanza allo stadio, ci si sono fiondate su. La mano ha trovato… una sigaretta: là, nell’angolo incavo delle giacca marrone color merda e grigiume, una sigaretta sola soletta, stropicciata e impaurita. Una sigaretta utile, fantastica, speciale.
Una sigaretta per rispondere al nostro secondo dilemma principale. Che – fare? Alzarsi, uscire dalla fabbrica, portarsi la polvere in giro, camminare come uno zombie fino al mattino e… fumare. Fumare. C’avete mai pensato al suono della parola fumare? Sa di libero. Di porto, di sguardo sul mare, di occhio chiuso fino al limitare del prossimo sogno da compiere. Altro che cancro ai polmoni. Fumare. È la migliore apologia della morte che questa vita qui, ora, questa notte, ci possa regalare.
E usciamo in strada allora. Lasciamoci la fabbrica e il suo umido nero alle spalle, aggiustiamoci la giacca rabbrividendo ed eccoci, siamo già sul marciapiede. Blu alto nel cielo oltre i palazzi, due luci di lampioni soffuse e un silenzio immorale. Portiamo la sigaretta alle labbra – il primo contatto è stupendo, è ancora chiusa, giovane e fresca: la lingua la bagna, lei sa di liquirizia – e iniziamo a camminare. Dove si va? In strada, ma con una meta. Piedi piegati o male allo stomaco, testa che sbatte o schiena che vibra, non importa: in strada non si va mai a caso. L’ora, non la si può sapere.
Saranno le tre, le cinque. È più mattina che notte, lo si sente dall’aria, che è più gasata che piana. Il
primo passo è quindi quello verso la colazione. Iniziamo a camminare verso via Nizza, dove le suore ci danno il latte che fa cagare, e per noi questo è un complimento fatto alle suore, perché senza quel latte io non potrei cagare, tu non potresti cagare, lei, così dolce, non potrebbe cagare: quindi grazie alle mucche al latte e alle suore. Comunque, la cosa importante non sono le suore o il
panettone ad Agosto, ma il fatto centrale è che ci saranno quaranta minuti a piedi da fare, e quindi
abbiamo tutto il tempo per… fumare. Ci fermiamo un secondo, per assaporare il momento dell’accensione. La aggiustiamo sul labbro, prendendola per il bacino, spostandola mentre ci guarda lì, sdraiata, pronta, con le gambe aperte e un sorriso a metà… e mettiamo una mano in tasca per cercare l’accendino. Una pausa. Lei sorride piano. In un'altra tasca, nei pantaloni. Lei ci guarda di sbieco, sorride meno. Rapidi: si cerca nel risvolto, in una tasca ancora. Lei ha paura, scosta i capelli, e si copre il seno. Nella camicia strappata, nel polsino: ma niente. Lei è fredda, e pure incazzata – improvvisamente sfuma dal letto, se ne va, esce dalla stanza. La porta scompare, e si porta via pure il lenzuolo. Rimaniamo solo noi… noi in mezzo alla strada, di notte, con una sigaretta in mano, un’ottima speranza, un ottimo amore: ma senza accendino.
Vivere in strada ti porta a conoscere la città in ogni angolo suo. Conosci i marciapiede, il cerume degli angoli spenti, i sanpietrini e le luci dei lampioni. Una diversa dall’altra. Cammini, di notte, e senti solo i tagli nei piedi e il pus. I bidoni verdi aperti e il loro tanfo, che è una digestione continua di pance altrui. Di benessere altrui. Conosci le panchine, le fontane, i discount dove nel bancale più
basso c’è sempre Vinello: confezione verde, scritta gialla e la dicitura vino bianco da pasto. E tu sai che il pasto è irrilevante, in fondo. Sai dove sono le puttane, gli spacciatori. Sai dove rivendere un cellulare rubato, dove sbloccare una sim. Dove piazzare le giacche prese allo spaccio dei vestiti.
Dove nascondere la tua sacca, nel piano rialzato della stazione. Della città conosci le stelle che vedi tra le aperture dei palazzi, i suoi bus scassati e la pioggia che ha sempre lo stesso sapore. Un saporedi viola immatura. Ma una sigaretta, senza accendino. Una sigaretta spostata dal labbro e riposta nell’incavo in cui l’avevi trovata, non ha soluzione. La città ti porta a fare… a fare di tutto. Puoi rollare tabacco nella carta da giornale. Puoi fumare l’erba secca del parco pisciato. Puoi dire ciao a un bambino e mandarlo affanculo. Ma una sigaretta, senza accendino. No: questo no. Questo, no.
Non ora e non qui. I tuoi polmoni già aperti, lo sguardo già pieno. Oltre le finestre, oltre le tegole, le
parabole e il destino. Ma senza accendino… La città questa notte rimane solo un cimitero in cui camminare piano prendendo per invidia la tomba del tuo vicino.

Outro
Fuori dalla mensa. Con la schiena appoggiata contro il muro. Il tuo nome segnato sulla lista, Ruben
e un altro marocchino che si scambiano occhiate per un favore non dato. La giacca sudata. Il culo
sul marmo nero del marciapiede. Saranno le quattro, le sei. È più mattino che notte, lo sai dall’aria
che è più gas, ancora più gas di quello che è. E aspetti. Sempre e solo aspettare. Che – fare? Abbiamo tutti una mano che scivola dentro la tasca, un giorno tutti l’abbiamo. Tocchiamo una sigaretta pronta fatta e finita, a un passo da noi. La tocchiamo e la sentiamo scivolare via lentamente, come la coda di gente che entra come un automa per prendere il latte e cagare. La sentiamo, sfiorandole i capelli, ma non possiamo permettercela. Noi non possiamo fumare. Se io, qui, oggi, potessi accendervi tutti con un lampo e uno sbuffo, inspirerei le strade, le macchine, la gente, i sorrisi e l’elettricità. Inspirerei tutto, la polvere e il resto. E quando, con le labbra a soffietto,
lascerei il fumo oltre di me… io, credetemi, so che ogni cosa tornerebbe al suo posto. Ma la sigaretta è in tasca. La sigaretta è andata. Oggi per noi è solo un altro giorno, un altro giorno che aspetta di trovare una pietra focaia sfacciata, libera. Una pietra scintillante, che in fondo ci è dovuta.

4 commenti:

  1. Bravo, significativo fa riflettere!

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  2. mi piace com'è scandito il racconto..grazie!

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  3. Complimenti, bravo,in un racconto hai reso al lettore la giornata di uno dei mille emarginati e la sua disperazione.

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  4. GRAZIE A TUTTI, di cuore!
    un abbraccio
    michele

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