“Andrea, passami il sale”.
Il bimbo, con gli occhi ancora gonfi e l’espressione imbronciata per la risposta appena ricevuta, allungò la sua manina rosa e paffuta verso la saliera. Si divertiva ad immaginarla come un bianco soldatino impettito, ordinatamente allineato proprio nel centro del grande girasole disegnato sulla tovaglia.
“Lo so che domani è il tuo compleanno – proseguì con voce dolce Alessandro, suo padre – e che vuoi un regalo, un regalo bellissimo. La mamma non ti ha detto che non l’avrai, anzi. Ti ha solo detto che, se vuoi il tuo regalo – il tono della voce di Alessandro assunse un registro diverso, di un’ottava più alto – non puoi più fare le bizze come oggi, capito?. Ormai sei un bimbo adulto, devi darti da fare anche tu ed aiutarci quando ti chiediamo qualcosa”.
Il viso tondo di Andrea non accennava a cambiare espressione. I piccoli occhi chiari del bimbo, però, lasciavano trasparire i primi bagliori della pace con i suoi genitori, che presto sarebbe scoppiata. Viola, esperta nel decifrare le espressioni del suo bambino, colse al volo l’opportunità per penetrare nella breccia che si stava lentamente aprendo.
“Amore, sai che ti vogliamo bene. Quando fai così ci fai soffrire. Non voglio vederti piangere”.
“Si mamma, ma io…”
“Facciamo così: sbrigati a finire il pollo che hai nel piatto, così dopo puoi prendere anche il dolce”.
“Davvero?” Il viso del bimbo si aprì in un sorriso radioso.
“E stasera riceverai il primo regalo: potrai stare alzato con mamma e papà a vedere la televisione. Vuoi?”
“Si”. Il bambino proruppe in un grido entusiasta, le mani levate al cielo in segno di vittoria e le lacrime di poco prima dimenticate, asciutte al sole dell’entusiasmo. Sbranò il resto del pollo che aveva davanti, e fiero mostrò il piatto vuoto alla mamma.
“Posso prendere il dolce?”
“Si amore”.
“Due fette”
“Una. Non esagerare, ti verrà da vomitare”.
Finita la generosa porzione di torta al cioccolato, Andrea si sentiva decisamente meglio. Lo sgomento di poco prima era solo un pallido ricordo. L’eccitazione e la gioia per la giornata che stava per venire lo scuotevano tutto, fino angli angoli più segreti del suo piccolo corpicino lilla.
E, quasi non ci credeva, nonostante l’ora tarda ed i barbagianni che già cantavano la ninnananna alla luna, era seduto al suo posto preferito, in mezzo a mamma e papà, a vedere la tv. Il programma che c’era in televisione era un po’ noioso, con una signora dai capelli chiari che parlava a degli uomini che, da quanto riusciva a capire, erano rinchiusi dentro una casa in un altro posto, e ricevevano dei soldi per starci, e si lamentavano perché non volevano essere lì. Chissà chi ce li aveva rinchiusi. Peccato non poter cambiare canale. Però andava bene lo stesso. Era tardi, era ancora alzato, era in mezzo ai suoi genitori, e domani sarebbe stato il suo compleanno. Chissà quale sarebbe stato il regalo. Sperava che i suoi genitori avessero capito. Gliel’aveva detto un milione di volte, in tutti i modi possibili, fino ad esasperarli. Aveva pianto ed urlato, implorato, litigato con loro, proprio come oggi pomeriggio. Voleva la maglietta di quel calciatore brasiliano. Quella maglietta bella, lucida, a strisce rosse e nere, col numero e il nome del suo idolo stampati dietro con lettere dorate. Quella maglietta che, una volta indossata, l’avrebbe reso fortissimo, ed i suoi amici non avrebbero potuto più prenderlo in giro. Gliel’avrebbe fatta vedere lui. Era sicuro. Avrebbe fatto vedere loro quanto valeva. Desiderava tantissimo quella maglietta. E, forse, domani sarebbe stata sua. Ma adesso c’era il dolce tepore del petto di sua mamma, sul quale aveva poggiato la testa. E le carezze di suo padre, il morbido tocco sulle smunte gambette poggiate in grembo a papà. E la dolce sensazione del lasciarsi andare, dello spegnersi lentamente, dello svanire, fino ad annullarsi dentro quel calore.
Donna Nilde si alzava sempre di buon mattino, quando i primi raggi le accarezzavano le pupille, sussurandole che un nuovo giorno era venuto e lei doveva andare ad accoglierlo, da buona cerimoniera. Allora Nilde buttava i piedi giù dal letto, sempre il destro per primo, e si toglieva la cuffietta a fiori, regalo del suo defunto marito. Era vedova da ormai vent’anni, e la solitudine non le pesava più di tanto. Sapeva come affrontarla. Non aveva trovato altri uomini, né forse voleva trovarne. Di amiche vere ne aveva poche, che considerava come sorelle. Conosceva tuttavia molte persone. Non è che non le piacesse la gente, ma neppure che l’amasse troppo. Lei era una donna pia, timorata di Dio, che trascorreva gran parte del suo tempo lavorando piccoli oggetti che vendeva al mercatino rionale. Il misero incasso veniva poi destinato ai poveri della parrocchia. Amava molto leggere, e spesso lo faceva sul piccolo balcone di casa sua, con la radio accesa. Le piaceva quella posizione. Ogni tanto interrompeva la lettura e spostava di poco lo sguardo verso la piccola piazzetta che c’era dirimpetto alla casa. Era gradevole avere sottocchio tutto ciò che accadeva dall’altro lato della strada. Nilde osservava e registrava, con il suo occhio attento e la sua memoria ferrea. Poteva menzionare i passanti, uno ad uno. C’era la signora grassa con i riccioli, che ogni mattina alle otto in punto portava a scuola il nipote. C’era il venditore di dolciumi, col piccolo banchetto colorato e la macchina del popcorn. C’era la coppia di vecchietti che ogni sera passeggiavano mano nella mano. Vecchietti, si. Avranno avuto almeno dieci anni più di lei, questo era sicuro. C’era l’idraulico, col suo camioncino bianco. Chissà se erano vere le storie sugli idraulici. Il suo non le aveva mai fatto avancès. L’umanità più colorata si affacciava sotto il suo balcone, affaticandosi nei ritmi del vivere moderno. Sbuffavano, correvano, parlavano, discutevano, si amavano e si odiavano, ridevano e ridevano. E lavoravano. Non proprio tutti. C’era una famiglia che non rispettava quelle regole non scritte che si usano per vivere nella società moderna.
Madre, padre e figlio. Una famiglia di barboni.
Ieri sera erano andati a cena alla mensa popolare, nel palazzo in fondo alla piazza. Nilde li aveva visti staccando per un attimo gli occhi dal romanzo che stava leggendo, una storia della Allende. Circa un’ora dopo erano usciti e si erano seduti sulla panchina, di fronte al negozio di elettrodomestici. Gli adulti ai lati ed il bambino in mezzo a loro. Sembrava eccitato il bimbo. Si muoveva, si alzava, si sedeva e tornava di scatto in piedi. Alla fine si era sdraiato tra i suoi genitori finché, un paio d’ore dopo, non si era addormentato. Nilde, interrompendo di nuovo la lettura, aveva avuto occasione di notare come i genitori avessero adagiato il bimbo sul grande cartone familiare su cui dormivano. L’avevano sdraiato in mezzo a loro.
Dormivano in terra, come bestie.
Questa mattina, alle otto, padre, madre e figlio erano già a chiedere l’elemosina lungo la via. Dovevano essere riusciti a convincere il bimbo a dar loro una mano. Ieri si era rifiutato, facendo rumorose bizze che quasi le avevano impedito di leggere. Chissà cosa gli avevano fatto per convincerlo. Sicuramente l’avevano picchiato. Era un’indecenza che due genitori simili potessero tenere un bambino così piccolo in mezzo ad una strada, negandogli perfino le più banali cure. Avevano un bel dire tutti quei distinti signorotti delle associazioni di carità, impegnati nel sociale solo per fare sfoggio di loro stessi.
“La colpa è dello Stato – le aveva detto una volta un uomo che distribuiva dei cenci ai senzatetto - che non assicura a tutti di poter vivere una vita dignitosa. La colpa è di chi governa – aveva rincarato - che non è interessato minimamente alla vita di queste persone”.
“ La colpa è di chi si trova in queste situazioni – aveva risposto lei stizzita – che sceglie di non voler fare niente della sua vita. Se avessero voglia di lavorare non sarebbero così malmessi”.
“Ma signora, mi scusi, pensa veramente che chi non ha da mangiare e dorme all’addiaccio non sia vittima delle circostanze? Crede veramente che il problema sia solo di volontà? Pensa che queste persone siano felici della loro vita? ”
“Di certo non gliel’ho detto io di finire così”.
Era ancora di quest’idea, e le parole dell’uomo in difesa dei barboni non avevano fatto altro che confermare i suoi pensieri. Ognuno sceglieva il suo percorso. Chi conduceva una vita da barbone se l’era cercata. Gente che non aveva voglia di far niente, se non di ubriacarsi e di vivere alle spalle di qualcun altro.
Nilde si affacciò di nuovo al balcone, per innaffiare il piccolo gelsomino che ornava l’aria col suo profumo pungente. Al di là della strada, nella piazzetta, una scena talmente assurda da sembrare irreale, quasi grottesca. Il padre di quella famiglia di barboni era al banchetto in fondo alla piazza, e stava comprando una maglietta. Una di quelle appese fuori, delle squadre di calcio. Incredibile. Quelli non avevano soldi né per dar da mangiare a loro figlio né per mandarlo a scuola. Non avevano soldi per vestirlo o per farlo dormire in un posto riparato. Non avevano niente. E gli unici quattrini che erano riusciti chissà come a racimolare li buttavano via così? La donna non ci vide più, era l’ora di dire basta. Sarebbe andata alla polizia, a denunciare quei genitori. Maltrattamento di minore. Basta. Non c’era altro da fare. Ma com’era possibile? Era un’offesa ad ogni diritto umano. Quel bambino non poteva crescere così. Chissà a cosa l’avrebbero costretto.
Si infilò velocemente un cappottino, e scese le scale speditamente. Aprì il portone di casa, e si diresse verso la strada. Ma tutto d’un tratto la terra sparì sotto i suoi piedi, ed il mondo prese a girarle intorno. Cadde rovinosamente a terra. Mio Dio, aiuto. La gente le passava accanto, ignorandola. Ognuno era troppo preso dai propri pensieri. Non la vedevano. O non volevano vederla. Aiuto, vi prego. Le parole, pesanti, non riuscivano ad uscire dalla bocca. Era troppo debole. Qualcuno, qualcuno mi aiuti. Vi supplico. Niente. Era lì, per terra, con un’intera umanità intorno che fingeva di non accorgersene. Gli occhi, pian piano, le si chiudevano. Il ronzio nelle orecchie si faceva sempre più forte. L’ultimo ricordo, prima di svenire, furono le voci concitate di un uomo e di una donna che si avvicinavano sempre più. E la mano di un bambino. Un bambino inguainato in una maglietta a strisce. Rosse e nere. Bastardi. Le avrebbero rubato la catenina che portava al collo. Ne era sicura. La catenina che le aveva regalato suo marito il giorno dopo che si erano conosciuti. Quella catenina che portava al collo da una vita. La mano si avvicinava sempre più al suo collo. Gli occhi le si velarono. E le lacrime caddero copiose quando con un rapido scarto la manina, dolcemente, prese a carezzarle la fronte.
Il bimbo, con gli occhi ancora gonfi e l’espressione imbronciata per la risposta appena ricevuta, allungò la sua manina rosa e paffuta verso la saliera. Si divertiva ad immaginarla come un bianco soldatino impettito, ordinatamente allineato proprio nel centro del grande girasole disegnato sulla tovaglia.
“Lo so che domani è il tuo compleanno – proseguì con voce dolce Alessandro, suo padre – e che vuoi un regalo, un regalo bellissimo. La mamma non ti ha detto che non l’avrai, anzi. Ti ha solo detto che, se vuoi il tuo regalo – il tono della voce di Alessandro assunse un registro diverso, di un’ottava più alto – non puoi più fare le bizze come oggi, capito?. Ormai sei un bimbo adulto, devi darti da fare anche tu ed aiutarci quando ti chiediamo qualcosa”.
Il viso tondo di Andrea non accennava a cambiare espressione. I piccoli occhi chiari del bimbo, però, lasciavano trasparire i primi bagliori della pace con i suoi genitori, che presto sarebbe scoppiata. Viola, esperta nel decifrare le espressioni del suo bambino, colse al volo l’opportunità per penetrare nella breccia che si stava lentamente aprendo.
“Amore, sai che ti vogliamo bene. Quando fai così ci fai soffrire. Non voglio vederti piangere”.
“Si mamma, ma io…”
“Facciamo così: sbrigati a finire il pollo che hai nel piatto, così dopo puoi prendere anche il dolce”.
“Davvero?” Il viso del bimbo si aprì in un sorriso radioso.
“E stasera riceverai il primo regalo: potrai stare alzato con mamma e papà a vedere la televisione. Vuoi?”
“Si”. Il bambino proruppe in un grido entusiasta, le mani levate al cielo in segno di vittoria e le lacrime di poco prima dimenticate, asciutte al sole dell’entusiasmo. Sbranò il resto del pollo che aveva davanti, e fiero mostrò il piatto vuoto alla mamma.
“Posso prendere il dolce?”
“Si amore”.
“Due fette”
“Una. Non esagerare, ti verrà da vomitare”.
Finita la generosa porzione di torta al cioccolato, Andrea si sentiva decisamente meglio. Lo sgomento di poco prima era solo un pallido ricordo. L’eccitazione e la gioia per la giornata che stava per venire lo scuotevano tutto, fino angli angoli più segreti del suo piccolo corpicino lilla.
E, quasi non ci credeva, nonostante l’ora tarda ed i barbagianni che già cantavano la ninnananna alla luna, era seduto al suo posto preferito, in mezzo a mamma e papà, a vedere la tv. Il programma che c’era in televisione era un po’ noioso, con una signora dai capelli chiari che parlava a degli uomini che, da quanto riusciva a capire, erano rinchiusi dentro una casa in un altro posto, e ricevevano dei soldi per starci, e si lamentavano perché non volevano essere lì. Chissà chi ce li aveva rinchiusi. Peccato non poter cambiare canale. Però andava bene lo stesso. Era tardi, era ancora alzato, era in mezzo ai suoi genitori, e domani sarebbe stato il suo compleanno. Chissà quale sarebbe stato il regalo. Sperava che i suoi genitori avessero capito. Gliel’aveva detto un milione di volte, in tutti i modi possibili, fino ad esasperarli. Aveva pianto ed urlato, implorato, litigato con loro, proprio come oggi pomeriggio. Voleva la maglietta di quel calciatore brasiliano. Quella maglietta bella, lucida, a strisce rosse e nere, col numero e il nome del suo idolo stampati dietro con lettere dorate. Quella maglietta che, una volta indossata, l’avrebbe reso fortissimo, ed i suoi amici non avrebbero potuto più prenderlo in giro. Gliel’avrebbe fatta vedere lui. Era sicuro. Avrebbe fatto vedere loro quanto valeva. Desiderava tantissimo quella maglietta. E, forse, domani sarebbe stata sua. Ma adesso c’era il dolce tepore del petto di sua mamma, sul quale aveva poggiato la testa. E le carezze di suo padre, il morbido tocco sulle smunte gambette poggiate in grembo a papà. E la dolce sensazione del lasciarsi andare, dello spegnersi lentamente, dello svanire, fino ad annullarsi dentro quel calore.
Donna Nilde si alzava sempre di buon mattino, quando i primi raggi le accarezzavano le pupille, sussurandole che un nuovo giorno era venuto e lei doveva andare ad accoglierlo, da buona cerimoniera. Allora Nilde buttava i piedi giù dal letto, sempre il destro per primo, e si toglieva la cuffietta a fiori, regalo del suo defunto marito. Era vedova da ormai vent’anni, e la solitudine non le pesava più di tanto. Sapeva come affrontarla. Non aveva trovato altri uomini, né forse voleva trovarne. Di amiche vere ne aveva poche, che considerava come sorelle. Conosceva tuttavia molte persone. Non è che non le piacesse la gente, ma neppure che l’amasse troppo. Lei era una donna pia, timorata di Dio, che trascorreva gran parte del suo tempo lavorando piccoli oggetti che vendeva al mercatino rionale. Il misero incasso veniva poi destinato ai poveri della parrocchia. Amava molto leggere, e spesso lo faceva sul piccolo balcone di casa sua, con la radio accesa. Le piaceva quella posizione. Ogni tanto interrompeva la lettura e spostava di poco lo sguardo verso la piccola piazzetta che c’era dirimpetto alla casa. Era gradevole avere sottocchio tutto ciò che accadeva dall’altro lato della strada. Nilde osservava e registrava, con il suo occhio attento e la sua memoria ferrea. Poteva menzionare i passanti, uno ad uno. C’era la signora grassa con i riccioli, che ogni mattina alle otto in punto portava a scuola il nipote. C’era il venditore di dolciumi, col piccolo banchetto colorato e la macchina del popcorn. C’era la coppia di vecchietti che ogni sera passeggiavano mano nella mano. Vecchietti, si. Avranno avuto almeno dieci anni più di lei, questo era sicuro. C’era l’idraulico, col suo camioncino bianco. Chissà se erano vere le storie sugli idraulici. Il suo non le aveva mai fatto avancès. L’umanità più colorata si affacciava sotto il suo balcone, affaticandosi nei ritmi del vivere moderno. Sbuffavano, correvano, parlavano, discutevano, si amavano e si odiavano, ridevano e ridevano. E lavoravano. Non proprio tutti. C’era una famiglia che non rispettava quelle regole non scritte che si usano per vivere nella società moderna.
Madre, padre e figlio. Una famiglia di barboni.
Ieri sera erano andati a cena alla mensa popolare, nel palazzo in fondo alla piazza. Nilde li aveva visti staccando per un attimo gli occhi dal romanzo che stava leggendo, una storia della Allende. Circa un’ora dopo erano usciti e si erano seduti sulla panchina, di fronte al negozio di elettrodomestici. Gli adulti ai lati ed il bambino in mezzo a loro. Sembrava eccitato il bimbo. Si muoveva, si alzava, si sedeva e tornava di scatto in piedi. Alla fine si era sdraiato tra i suoi genitori finché, un paio d’ore dopo, non si era addormentato. Nilde, interrompendo di nuovo la lettura, aveva avuto occasione di notare come i genitori avessero adagiato il bimbo sul grande cartone familiare su cui dormivano. L’avevano sdraiato in mezzo a loro.
Dormivano in terra, come bestie.
Questa mattina, alle otto, padre, madre e figlio erano già a chiedere l’elemosina lungo la via. Dovevano essere riusciti a convincere il bimbo a dar loro una mano. Ieri si era rifiutato, facendo rumorose bizze che quasi le avevano impedito di leggere. Chissà cosa gli avevano fatto per convincerlo. Sicuramente l’avevano picchiato. Era un’indecenza che due genitori simili potessero tenere un bambino così piccolo in mezzo ad una strada, negandogli perfino le più banali cure. Avevano un bel dire tutti quei distinti signorotti delle associazioni di carità, impegnati nel sociale solo per fare sfoggio di loro stessi.
“La colpa è dello Stato – le aveva detto una volta un uomo che distribuiva dei cenci ai senzatetto - che non assicura a tutti di poter vivere una vita dignitosa. La colpa è di chi governa – aveva rincarato - che non è interessato minimamente alla vita di queste persone”.
“ La colpa è di chi si trova in queste situazioni – aveva risposto lei stizzita – che sceglie di non voler fare niente della sua vita. Se avessero voglia di lavorare non sarebbero così malmessi”.
“Ma signora, mi scusi, pensa veramente che chi non ha da mangiare e dorme all’addiaccio non sia vittima delle circostanze? Crede veramente che il problema sia solo di volontà? Pensa che queste persone siano felici della loro vita? ”
“Di certo non gliel’ho detto io di finire così”.
Era ancora di quest’idea, e le parole dell’uomo in difesa dei barboni non avevano fatto altro che confermare i suoi pensieri. Ognuno sceglieva il suo percorso. Chi conduceva una vita da barbone se l’era cercata. Gente che non aveva voglia di far niente, se non di ubriacarsi e di vivere alle spalle di qualcun altro.
Nilde si affacciò di nuovo al balcone, per innaffiare il piccolo gelsomino che ornava l’aria col suo profumo pungente. Al di là della strada, nella piazzetta, una scena talmente assurda da sembrare irreale, quasi grottesca. Il padre di quella famiglia di barboni era al banchetto in fondo alla piazza, e stava comprando una maglietta. Una di quelle appese fuori, delle squadre di calcio. Incredibile. Quelli non avevano soldi né per dar da mangiare a loro figlio né per mandarlo a scuola. Non avevano soldi per vestirlo o per farlo dormire in un posto riparato. Non avevano niente. E gli unici quattrini che erano riusciti chissà come a racimolare li buttavano via così? La donna non ci vide più, era l’ora di dire basta. Sarebbe andata alla polizia, a denunciare quei genitori. Maltrattamento di minore. Basta. Non c’era altro da fare. Ma com’era possibile? Era un’offesa ad ogni diritto umano. Quel bambino non poteva crescere così. Chissà a cosa l’avrebbero costretto.
Si infilò velocemente un cappottino, e scese le scale speditamente. Aprì il portone di casa, e si diresse verso la strada. Ma tutto d’un tratto la terra sparì sotto i suoi piedi, ed il mondo prese a girarle intorno. Cadde rovinosamente a terra. Mio Dio, aiuto. La gente le passava accanto, ignorandola. Ognuno era troppo preso dai propri pensieri. Non la vedevano. O non volevano vederla. Aiuto, vi prego. Le parole, pesanti, non riuscivano ad uscire dalla bocca. Era troppo debole. Qualcuno, qualcuno mi aiuti. Vi supplico. Niente. Era lì, per terra, con un’intera umanità intorno che fingeva di non accorgersene. Gli occhi, pian piano, le si chiudevano. Il ronzio nelle orecchie si faceva sempre più forte. L’ultimo ricordo, prima di svenire, furono le voci concitate di un uomo e di una donna che si avvicinavano sempre più. E la mano di un bambino. Un bambino inguainato in una maglietta a strisce. Rosse e nere. Bastardi. Le avrebbero rubato la catenina che portava al collo. Ne era sicura. La catenina che le aveva regalato suo marito il giorno dopo che si erano conosciuti. Quella catenina che portava al collo da una vita. La mano si avvicinava sempre più al suo collo. Gli occhi le si velarono. E le lacrime caddero copiose quando con un rapido scarto la manina, dolcemente, prese a carezzarle la fronte.
Bel lavoro amico mio!
RispondiEliminaAde
Bravo, fratello di lecce!
RispondiEliminaMamaangel
Ho pianto. E' bellissimo.
RispondiEliminacomplimenti, molto originale! Continua
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